1891-1918 – La CGIL nello scenario locale

La “Borsa del Lavoro” di Piacenza sorge il 23 marzo 1891 e costituisce lo sbocco all’associazionismo socialista che porta già dal 1885 alla nascita di un Partito Operaio in città che accoglie la visita di Andrea Costa e partecipa al congresso milanese nel ‘90, così come  a tutti i successivi.  Scopo della struttura, che è guidata da Angiolo Cabrini, primo segretario, è principalmente quello di favorire il collocamento dei lavoratori come risposta alla grave crisi occupazionale. Gli animatori – Angiolo Cabrini e i membri del Comitato: Enrico Sperzagni, Giovanni Gaiuffi, Carlo Pionetti, Lodovico Vignalli, Giovanni Orsini – ispirati dalle idee del socialismo e sostenuti dal nuovo clima di concordanza con gli esponenti radicali e democratici e dalla presenza in città di una giunta amica con il sindaco Amos Guarnaschelli, hanno preparato il terreno organizzando al Teatro Filodrammatico una conferenza alla presenza della Federazione operaia Figli del lavoro, delle Società sarti e lavoranti sarti, barbieri e parrucchieri, cuochi e camerieri e della Cooperativa braccianti. I promotori chiedono e ottengono dall’Amministrazione comunale in concessione gratuita l’uso dei locali al primo piano della ex Chiesa del Carmine, in via Borghetto n. 15, oltre che un finanziamento annuo di 1500 lire, che si assomma ai sussidi elargiti in seguito dalla Cassa di Risparmio (500 lire) e a quelli della Provincia (100) e della Camera di Commercio (75). Il 23 marzo 1891, nella sede del Circolo democratico viene steso l’Atto costitutivo, che consente l’immediata apertura al pubblico della Borsa il 25 giugno. Il 20 settembre, per l’inaugurazione ufficiale, si organizza una grande festa, con tombolata e concerto in piazza Cavalli.

Le caratteristiche economiche della provincia piacentina ruotano attorno all’agricoltura, che rimane fino agli anni Sessanta del Novecento il centro di ogni attività economica. 86.291 sono gli addetti nel censimento 1901, il 35% dei quali di “obbligati” – contadini e contadine a contratto, obbligati a una sorta di “corvées” per il padrone – e di braccianti, avventizi spesso stagionali. Dieci anni dopo, il numero complessivo degli addetti al settore primario è diminuito di 8.943 unità (77.348). Di converso, lo stesso processo incrementa il processo di “bracciantizzazione” che porta il numero degli avventizi giornalieri da 21.094 a 27.890 e produce la diminuzione del numero di “obbligati” (da 9.519 a 6910). I lavoratori della terra, stabilmente impiegati sui grandi poderi o utilizzati a giornata nei periodi di maggiore lavoro agricolo, arrivano a rappresentare il 45% degli addetti del settore. 34.800 uomini e donne sono in balia della disoccupazione, del ricatto lavorativo, dell’instabilità e spesso con un’unica possibilità di sopravvivenza, l’emigrazione. 87.567 piacentini nei primi 14 anni del Novecento lasciano le vallate a un ritmo di 3-5.000 all’anno per le nazioni vicine – Svizzera, la Francia e Germania – e per le Americhe; a questi si devono aggiungere i migranti stagionali, operai del legno e mondine, soprattutto: oltre 10.000 nel solo anno 1908.

Nel 1898, il 2 maggio, anche a Piacenza, scoppiano spontaneamente i moti per il prezzo del pane: prendono il via dalle donne che manifestano sotto il Municipio al grido di “pane e lavoro”, subito sostenute dalle bottonaie (tra le altre, della ditta Mauri Agazzi & C.), dalle magliaie della Laviosa e dalle scatolaie di Giuseppe Fontana e della Fagioli, che invadono piazzetta Pescheria e il piano superiore del Municipio. La dura repressione della forza pubblica che, dopo aver ordinato lo sgombero della piazza, spara sulla folla colpisce il calzolaio Pompeo Schiavi e nel pomeriggio anche Benvenuto Borotti e lo studente quattordicenne Francesco Arata. La Camera del Lavoro – come ormai tutti la chiamano – è sciolta d’imperio, mentre il segretario socialista Enrico Sperzagni viene arrestato. Nel frattempo gli scioperi si estendono anche ai lavoratori della filanda e della fornace di San Nicolò: le richieste riguardano la riduzione dell’orario lavorativo e un miglioramento salariale. Solo il 23 marzo del 1900, grazie ancora all’attivismo dei tipografi sostenuti dai muratori, falegnami fornai, imbiancatori, scalpellini, può ricostituirsi la Camera del lavoro con l’autorizzazione della Prefettura, che ottiene dalla Giunta cittadina i vecchi locali e il sussidio. La Federazione provinciale dei Circoli socialisti del capoluogo e innanzitutto di quelli nati nei paesi della Val Tidone, costituisce un’ulteriore spinta all’allargamento delle prospettive di lotta, coinvolgendo la mobilitazione alle campagne. L’esito spesso positivo degli “scioperi di conquista” per la riduzione dell’orario e i miglioramenti salariali facilita l’adesione alle leghe che sorgono un po’ in tutti i paesi della provincia.

Proseguono le proteste del movimento rivendicativo contadino: nel 1901 scioperano in 3.700 e l’anno seguente in 4.170, mentre la Federazione delle leghe dei lavoratori dei campi, che aderisce alla Cdl nel 1903, organizza 8.000 iscritti in 44 leghe già agli inizi del secolo, soprattutto in val d’Ongina, val Tidone, nel circondario cittadino. Nascono inoltre in tutta la provincia leghe di muratori, selciatori, oltre che di tranvieri, falegnami, calzolai, unitamente a diverse Leghe femminili: nel 1910 sono oltre 100 quelle aderenti alla Camera del lavoro. Appartenenti allo stesso fermento organizzativo, insieme politico e sociale, sono le Cooperative sia di consumo, le più numerose, sia di lavoro: nei primi anni del ‘900 se ne contano già una trentina.

La formula civica della Camera del Lavoro, i cui dirigenti agli inizi rappresentano esclusivamente i gruppi artigiani della città, entra in crisi nei primi anni del Novecento proprio a causa dell’’abbandono in massa di 8.000 lavoratori della Federazione provinciale delle Leghe che rientrano solo dopo una modifica dello statuto: nel 1904 ad avere la preponderanza numerica sono le organizzazioni agricole. Il 15 luglio 1906 si pubblica il primo numero di “Voce Proletaria. Organo delle Leghe e delle Cooperative” in via Cavallotti (l’attuale via Roma) al numero 12, con lo slogan di Carlo Marx “l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi”, al costo di 5 centesimi, 3 lire per l’abbonamento annuale e i poetici auguri di Eugenio Tanzi e di Costantino Lazzari. “Voce Proletaria” verrà ininterrottamente distribuita tutti i sabati fino al giugno 1922, quando i fascisti la obbligheranno a cessare le pubblicazioni.

Il primo decennio del secolo è contraddistinto oltre che  da una crisi di consensi e di associati, anche da scissioni interne di carattere politico-sindacale tra una Camera sindacalista di ispirazione anarchica guidata prima da Pulvio Zocchi (che nel 1906 conta circa 1900 iscritti a fronte dei 5399 del 1905) e poi da Angelo Faggi, Cesare Rossi e Giuseppe Sartini e una secessionista dei riformisti con a capo il socialista Dante Argentieri. Il fulcro dello scontro riguarda la funzione assegnata alla Camera del Lavoro: di guida politica alla rivoluzione socialsita per gli uni, di strumento del miglioramento delle condizioni dei lavoratori per gli altri.

Il 1908, l’anno dell’inaugurazione del nuovo ponte stradale sul Po, viene considerato l’anno di svolta della trasformazione economica del territorio. Innanzitutto, si avvertono i miglioramenti introdotti dalle “buone pratiche” ispirate agli insegnamenti della Cattedra ambulante, del Consorzio cooperativo, della Federconsorzi. Nel 1891, quando nasce la “Borsa del lavoro”, vi sono solo 3435 operai nei circa 700 stabilimenti industriali presenti: la Cdl nei suoi primi anni colloca 3780 lavoratori, soprattutto nei servizi e come fornai. Agitazioni, scioperi e manifestazioni contro il carovita e la disoccupazione interessano la provincia già a fine secolo e in occasione dei periodi recessivi 1907-1908 e del 1912-1913, che coinvolgono anche gli investitori locali. Sono i bottonifici con le operaie la manifattura più caratteristica della produzione piacentina, con una dimensione medio-grande e un notevole indotto. Sorti verso il 1870, al tempo della nascita della “Borsa del lavoro”, i bottonifici occupano circa 400 dipendenti che, alla vigilia della guerra diventano 1500-1600 in nove stabilimenti provinciali. Nel 1906 Vittorio Corvi fonda la Società anonima industria bottoni con sede in via Campagna; i figli ne fondano altri tre a Castel san Giovanni (Olubra, Padano, Emiliano) e sempre qui nasce nel 1913 il bottonificio Maj; nel 1914 a Piacenza si costituisce la Fabbrica piacentina di Bottoni ing. Galletto & C.

Sono questi, tra il 1903 e il 1912, dopo l’importante avanzata delle forze progressiste del 1899 e gli effetti del varo del suffragio universale maschile che premia i partiti di massa con l’elezione a deputato nel 1913 del leader socialista Nino Mazzoni, anche gli anni di affermazione dell’esperienza del municipalismo riformista, ad opera della coalizione di Democratici e socialisti riformisti. Nove Comuni in provincia hanno un sindaco socialista. Dal 1902 al 1906, quando viene eletto Sindaco il liberale Francesco Pallastrelli,  il comune di Piacenza è retto dai Regi commissari; nel periodo bellico si succedono Enrico Della Cella ed Enrico Ranza.

Durante la Grande guerra gran parte del patrimonio edilizio pubblico viene requisito per ospitare le truppe e gli ospedali a servizio dell’esercito. L’Officina e la Direzione d’Artiglieria passano complessivamente da 526 addetti prima del conflitto mondiale, a 10.048 alla fine, con aree, laboratori, magazzini, polveriere in tutta la provincia. 7.500 emigrati devono rientrare in patria, le campagne si impoveriscono di manodopera, aumenta il costo dell’energia, scarseggiano le materie prime e gli operai specializzati per le lavorazioni, i trasporti si fanno difficili.

Le attività delle due Camere vengono travolte, anche se entrambe, pur con qualche transfuga, si fanno portavoce delle posizioni neutraliste. Quella sindacalista ha come riferimento l’Unione Sindacale Italiana (Usi) in cui è forte la presenza anarchica e conta circa 2.000 iscritti in tutta la provincia: a succedersi alla segreteria sono Armando Borghi, Clodoveo Bonazzi, Alibrando Giovannetti, Guglielmo Guberti, Gregorio Benvenuti e Pietro Stragliati. Quella unitaria, collegata alla Cgil, invece, è guidata da Telesforo Bonaretti dal 1914.

Allo scoppio del conflitto, Sartini è in prima linea nelle manifestazioni per la pace, insieme al ferroviere Florindo Ajò che lo sostituisce nella segreteria della Camera del lavoro sindacalista e alla “Voce proletaria”. Il socialista Nino Mazzoni viene bastonato il 15 maggio in una manifestazione per la pace a Bologna. Il 16 maggio, la Camera del lavoro convoca una contro manifestazione molto partecipata, in risposta alla dimostrazione interventista, partita dagli studenti dell’Istituto tecnico a cui si sono aggiunti quelli del ginnasio e del Liceo, diretti in corteo con bandiere nazionali al grido “Evviva l’esercito, abbasso l’Austria, abbasso Giolitti” dal Provveditore agli studi, alla sede della Banca popolare e agli Ospizi civili e alla residenza dell’Avvocato Camillo Piatti, deputato liberale che brevemente li arringa. Rispondono gli operai delle Officine meccaniche, i muratori e 400 donne, bottonaie delle varie fabbriche e dei cartonaggi Fagioli, che sfilano in corteo per le vie cittadine scontrandosi a più riprese con i manifestanti interventisti in piazza Cavalli e in via san Francesco, durante tutto l’arco della giornata, con intervento di Carabinieri e Polizia che caricano la folla e inseguono i neutralisti per le vie cittadine. Oltre ai feriti e ai contusi, una ventina sono gli arrestati.

Le attività delle due Camere del lavoro vengono travolte dalla Grande guerra.

 

Bibliografia, sitografia, archivi

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Archivio Cgil, Isrec Piacenza

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