1919-1945 – La CGIL nello scenario locale

Il primo dopoguerra anche a Piacenza, che dal 1914 al 1919 ha come sindaci Enrico Ranza e poi Carlo Montani, è contraddistinto da gravi problemi strutturali, aggravati da una situazione locale di arretratezza dei metodi di produzione agricoli e da una scarsa diffusione dell’industrializzazione, che si accompagnano all’inflazione, al lievitare dei prezzi di prima necessità, alla dilagante disoccupazione (il 40% della popolazione non ha più alcun lavoro), all’acuirsi delle insufficienze abitative. Da una parte, premono sulla popolazione le condizioni materiali di vita: la difficile fase di riconversione alla produzione e distribuzione dei beni alimentari non più tutelate dallo Stato e il conseguente caro-viveri, la diffusione e gli effetti dell’epidemia di febbre spagnola, il reintegro lavorativo dei reduci. Dall’altra, lo sguardo non può che essere rivolto ad un’Europa ancora in guerra, e al mito della Rivoluzione bolscevica propagato attraverso lo slogan “fare come in Russia”: una speranza per molti, un tremendo incubo per altri.

Il clima di slancio rivendicativo porta alla ricomposizione della frattura fra le due Camere del Lavoro grazie anche all’azione di Angelo Faggi che propone l’adesione della CdL di Piacenza all’Usi – il sindacato rivoluzionario – lasciando libertà alle Leghe che preferiscono affiliarsi alla Confederazione generale del Lavoro.

Nel “biennio rosso” piacentino i rappresentanti della Camera del Lavoro indirizzano, organizzano e guidano l’insorgenza sociale in tutti i settori, nessuno escluso: dai minatori di Montechino e Veleia (concessioni acquisite dalla Società Petroli d’Italia) agli infermieri e impiegati comunali, dalle bottonaie della Galletto, Corvi, Mai e dei maglifici collegati Irsch e Valdomio, ai garzoni di panettiere, dai selciatori ai maestri, per fare solo qualche esempio. E’ soprattutto il mondo rurale ad essere scosso dai grandi scioperi agrari, quello dell’autunno del ‘19, quando per un intero mese, il proletariato agricolo incrocia le braccia, con due obiettivi fondamentali: le 8 ore di lavoro nei campi “come massimo” e la conseguente lotta alla disoccupazione degli avventizi e giornalieri e quello dell’estate del ‘20, più breve, ma con forme di lotta altrettanto dure contro i possidenti e i fittavoli che non si attengono ai patti stipulati tra la Lega dei lavoratori della terra e l’Associazione degli agricoltori con la mediazione del Prefetto e che vengono colpiti danneggiando le macchine trebbiatrici, incendiando i fienili, assediando i poderi per premere per il rilascio dei “krumiri”: vi sarà anche un morto, un ragazzo di 19 anni che perderà la vita in seguito allo scoppio di una bomba lanciata nella stalla dagli scioperanti. Il ciclo di lotte rurali conduce ad importanti risultati come la creazione dell’Ufficio di collocamento misto, che prevede la partecipazione di una rappresentanza di lavoratori organizzati all’impiego della manodopera e il controllo dei criteri di occupazione nei grandi latifondi agrari in base al perticato e alla qualità dei terreni, oltre a miglioramenti salariali per obbligati e avventizi e il riconoscimento di una quota salariale relativa al caro-viveri. Saranno proprio questi successi contrattuali, unitamente alla prospettiva rivoluzionaria e non puramente sindacale, sostenuta tanto dalla CdL quanto dal Partito socialista dopo il XVI Congresso di Bologna, abilmente propagandata dalla stampa conservatrice, a favorire l’affermazione dello squadrismo fascista che viene organizzato prima di tutto per attuare spedizioni nelle campagne contro le Cooperative di consumo e di lavoro, le sedi delle leghe, i circoli socialisti. Lo spirito revanscista è alimentato anche dalla sconfitta dei metallurgici nella vertenza del settembre 1920, che a Piacenza ha coinvolto per un breve periodo i cinque stabilimenti della città (dei Fratelli Orio in via Campagna, la ditta Caccialanza, le Acciaierie in Viale Milano, Officine Meccaniche fuori Porta San Lazzaro, dell’ingegner Oreglia, fuori Porta Taverna, Stabilimento Orso) e la ditta Spadaccini di Ponte dell’Olio.

Tra il ‘19 e il ‘22 sono oltre 27 i morti e 500 le aggressioni per mano fascista. Il fascismo si afferma in provincia a suon di bastonate e revolverate contro i capi lega, i sindacalisti, gli anarchici e i socialisti, i sindaci (fra cui il sindaco di Piacenza Ferruccio Tansini), gli assessori, i consiglieri comunali, dopo che nelle elezioni di settembre-ottobre 1920 le giunte socialiste contese dal Blocco costituzionale di liberali e popolari si sono insediate in 25 comuni su 47 della provincia, compresa la città. Il fascismo si afferma così con le intimidazioni, le migliaia di bandi, che costringono i socialisti  ei sindacalisti, organizzatori del conflitto sociale e difensori dei diritti dei lavoratori, a lasciare la casa e il territorio. Si tratta della violenza di squadre organizzate di 30-60 uomini contro singoli obiettivi e soggetti che non viene contrastata dalle forze dell’ordine ed è tollerata, quando non direttamente finanziata, dalla classe dirigente liberale a fini di “ordine sociale” e con la quale il fascismo ottiene il passaggio dei lavoratori ai cosiddetti “sindacati economici” o “liberi sindacati”, prodromi del corporativismo di regime.

Fra il 2 e il 3 agosto 1922, dopo che sono state ridotte al silenzio la storica “Voce Proletaria”, organo di stampa della CdL e “Bandiera Rossa”, periodico del Partito socialista, i fascisti occupano anche la sede della Camera del Lavoro di via Borghetto, trasformandola nella Casa del Fascio, poi chiamata Casa Littoria: nei locali si installano tutti gli organi del Partito nazionale fascista piacentino e l’Ufficio politico investigativo (Upi), addetto alla repressione dell’antifascismo.

Negli anni del ventennio le forze sindacali, sottoposte al controllo sistematico della questura e dell’Ovra, si trovano impossibilitate ad agire, nonostante la resistenza sotterranea, e a volte manifesta, delle bottonaie, appartenenti a una categoria da sempre combattiva e orgogliosa di manifestare pubblicamente nelle vie cittadine, sindacalizzata fin dalla nascita a fine Ottocento nella “Lega di resistenza dei segatori, tornitrici e attaccatrici” e a un settore, quello bottoniero, tradizionalmente importante per l’economia locale – 2500 lavoratori nel ’29 – anche se a bassa tecnologia e ad alta intensità di lavoro, ovvero adatto alla manodopera femminile a bassissima retribuzione. Nel ’29, la concorrenza internazionale e il protezionismo inaspriscono la situazione: si inizia a licenziare e le tariffe orarie vengono ridotte dal 10 al 20% a seconda delle mansioni. Il 22 marzo, in risposta alle misure assunte dagli industriali e dalle Corporazioni interclassiste, che hanno preso il posto dei sindacati, la maggioranza delle 2000 operaie delle maggiori fabbriche – la Società anonima “Pietro Fontana Roux”, la S.A. Industria Bottoni”, la “Fabbrica piacentina di bottoni Vaccari Ing. Galletto e C.”, la “S.A. Fabbriche Riunite di Bottoni, in seguito unificate con sede a Milano e nome “S.A. Industria Bottoni e Ing. galletto e C.” – si dirige alla sede della Corporazione per poi continuare la protesta nei giorni seguenti e fino alla fine del mese nei luoghi di lavoro, nonostante la repressione, le intimidazioni, i licenziamenti, l’intervento del Prefetto, sollecitato dal Ministro degli interni e dallo stesso Mussolini, che invia la polizia a casa delle scioperanti per obbligarle a tornare al lavoro. L’interesse dell’episodio, al di là degli esiti – la risoluzione della vertenza al Ministero delle Corporazioni con il contenimento della riduzione salariale al 5% – sta nella capacità organizzativa manifestata dalla cellula comunista locale e il rinnovarsi di un coraggioso protagonismo femminile. Luogo di ritrovo dei comunisti era la casa di Paolo Belizzi, referente locale del PCdI, di frequente visitata da una delle bottonaie più attive, Linda Fortunati, sposata Roda, di 36 anni, amica di Luisa, la sorella di Paolo. E’ così possibile al piccolo nucleo di militanti comunisti in quel momento attivi in città e già uniti negli Arditi del Popolo nel tentativo di contrastare le violenze fasciste – Mario e Paolo Belizzi, Carlo Bernardelli, Guido Fava, Emilio Cammi, Guglielmo Schiavi e Angelo Chiozza – garantire il passaggio di informazioni nelle fabbriche coinvolte, aiutare ad orchestrare i vari momenti della mobilitazione e fare da tramite per la diffusione della notizia dello sciopero delle bottonaie piacentine, che viene pubblicata su “L’Unità”, allora stampata a Parigi e diffusa tra gli emigranti e in forma clandestina tra gli antifascisti italiani.

La partecipazione dell’Italia alla guerra sottopone il Paese a una nuova stretta reazionaria e peggiora le condizioni di vita della popolazione: nel marzo-aprile 1943 si registrano alcuni scioperi contro il regime nel Nord Italia, mentre il 1o marzo 1944 la grande industria italiana nelle regioni d’Italia ancora occupate dai tedeschi (con epicentro Milano e Torino) si ferma. A Piacenza lo sciopero coinvolge gli operai dell’Arsenale Militare sotto il controllo diretto dei tedeschi dal settembre 1943: le richieste di natura economica avanzate dagli operai vengono immediatamente soddisfatte per il timore di un allargamento della protesta nel territorio. Inoltre, anche il piacentino è impoverito non solo dai prelievi per gli ammassi obbligatori, dalla requisizione di case e alberghi per ospitare l’”alleato-occupante”, ma soprattutto la manodopera operaia viene costretta al lavoro obbligatorio, oppure impiegata direttamente dai tedeschi nella Todt o inviata in Germania sotto forma di lavoro coatto.

Il 3 giugno 1944 il Patto di Roma sancisce la nascita della Cgil (Confederazione generale italiana del lavoro) che si connota come filiazione diretta dei partiti del Comitato di liberazione nazionale: anche la storia del Cln locale esprime la tradizione di lotta delle diverse componenti politiche delle organizzazioni dei lavoratori piacentine. Nelle formazioni combattenti si ritrovano così figure che hanno combattuto insieme nelle fabbriche, nelle campagne e nelle manifestazioni di piazza.

Dopo la Liberazione di Piacenza e la sfilata delle Divisioni partigiane in piazza Cavalli il 5 maggio 1945, i lavoratori possono rientrare nella storica sede della Camera del Lavoro di via Borghetto: il segretario è Sergio Podestà dal 1945 al 1947 (con una segreteria composta da Luigi Bertè, Enrico Cademartiri, Giuseppe Contini, Giuseppe Forlini e Guerrino Sbolli) e a lui, dal 1948 al 1952, succedono Giuseppe Forlini e Felice Trabacchi. I locali di proprietà comunale vengono utilizzati per comizi e riunioni.

 

Bibliografia:

C. Antonini, E. Paraboschi (a cura di), La prima sorta sotto i cieli d’Italia, Camera del lavoro di Piacenza, 2021
F. Achilli, La piacevol provincia : Piacenza e la formazione dell’identità nell’Italia unita, edizioni Scritture 2014
C. Finetti, S. Fontana, Le ragioni del lavoro: studi per la storia della Camera del lavoro di Piacenza, Tipolito Farnese, 2005
S. Fontana (a cura di), Donne luoghi lavoro. Immagini del lavoro femminile a Piacenza nel Novecento. Catalogo della mostra di Piacenza, Palazzo Gotico, 13 aprile-10 maggio 2003, Mazzotta, 2003.
F. Achilli, La nascita del fascismo nel piacentino: 1919-1922, Unione Tipografica Piacentina, 1972
G. Mazzocchi, La Cassa di Risparmio di Piacenza e l’economia della provincia 1861-1961, Stabilimento tipografico Scotti, Milano 1961

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