PAOLO BELIZZI

Paolo Belizzi – «mi misero il nome Aldo, ma mi chiamavano Paolo» – nasce all’inizio del Novecento, penultimo di sette figli di una famiglia contadina, in Comune di Podenzano. Il padre è terzadro, la madre dedita alle onerose faccende domestiche non meno che al lavoro dei campi (unica pausa in una vita di privazioni e fatica, la recita serale del rosario). La prospettiva di abbandonare l’ingrata condizione contadina e approdare in città costituisce (e in larghe parti d’Italia costituirà ancora per molto tempo) un obiettivo ed un rilevante passo avanti nelle condizioni di vita e lavoro. I Belizzi si trasferiscono da Podenzano a Sant’Antonio e poi all’Infrangibile. I fratelli sono operai, una delle sorelle farà la sarta, la primogenita Marcilla affiancherà mamma Marietta nella conduzione della casa. Il giovanissimo Paolo è avviato al lavoro di falegname: dodici ore al giorno in una laboratorio di Sant’Antonio.

Il suo apprendistato lavorativo umano politico-morale si concretizza negli anni immediatamente successivi all’enorme e insensata tragedia della Grande guerra, tra biennio rosso e nascente fascismo. Sin dall’inizio, cioè, il suo antifascismo si nutre di severità di giudizio morale, un tratto che caratterizzerà Belizzi in modo permanente.

Credo di poter affermare che Paolo Belizzi, comunista “irregolare” sin dai suoi esordi libertarî al seguito di Canzi, si sentì sempre parte di quella comunità, anche in anni non privi di amarezza e in momenti di aspra polemica.

Nel libro Paolo ci raccontava che quando fu arrestato nell’estate del ’30, essendo sua massima preoccupazione di celare la rete cospirativa comunista (così tentando di evitare il Tribunale speciale), adottò sin dal primo interrogatorio la seguente tesi difensiva: «Sono andata dall’“Argentina” (un postribolo dell’epoca) e lì ho trovato uno che mi ha offerto duecento lire per andare a fare delle scritte antifasciste. Ne avevo bisogno e ho accettato. Non so altro, non conosco nessuno, non c’entro con la politica». Dal 1976 Paolo Belizzi fu presidente del Cam, eletto dall’assemblea degli iscritti, che nei secondi anni Settanta erano centinaia. La sua presenza fu fondamentale per aiutarci nel lavoro di conoscenza e valorizzazione del passato che avevamo intrapreso. 

“Dare il meglio per nulla!”: mi pare questo l’ideale pratico di Belizzi, ciò di cui rende merito, in queste pagine senza pretese, alle donne che lo hanno accompagnato nella vita e nella lotta: Marcilla, Luisa, Elda, Linda. E se mi interrogo oggi su cosa quest’uomo severo e mite, non privo di un tratto signorile, abbia potuto trovare nella decennale frequentazione del nostro gruppo di giovani scapestrati, vorrei rispondere: quello che cercava.

Qua e là, ogni tanto, a piccole dosi, almeno l’eco dell’antica generosità che dava senso alla sua vita.

 

Tratto da:

Gianni D’Amo, Prefazione a: Paolo Belizzi, Quelli che non fanno storia. Pagine della cospirazione antifascista a Piacenza, Editrice Vicolo del Pavone, 2005)