1919-1945 – La CGIL nello scenario generale

Alla fine della guerra, le tensioni accumulate durante il conflitto, le promesse ai combattenti non rispettate, l’inflazione spaventosa determinata dalla mancanza dei generi di prima necessità innescano una formidabile ripresa della conflittualità sociale e delle rivendicazioni sindacali del “biennio rosso”, quando la Confederazione passa dai 250 000 iscritti alla fine della guerra a oltre 1 milione nel 1919 e 2 milioni e 200.000 nel 1920. È eletto segretario il riformista Ludovico D’Aragona.

Nel febbraio del 1919 la FIOM, diretta da Bruno Buozzi, realizza la storica conquista della giornata lavorativa di 8 ore. A Torino, per impulso del movimento che si costituisce attorno al periodico “L’Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci ed altri intellettuali socialisti torinesi (Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini), si impongono nuovi strumenti di rappresentanza operaia, sul modello dei soviet bolscevichi: i consigli di fabbrica, che dirigono lotte straordinarie come lo “sciopero delle lancette” alla FIAT. L’effervescenza operaia, a fronte di una netta chiusura da parte della Confindustria, porta l’anno seguente alla grande agitazione dei metalmeccanici, con l’occupazione delle fabbriche. Il movimento si divide fra chi vuole dare alla lotta un carattere rivoluzionario – e in tal senso si orientano la maggioranza massimalista del PSI e l’Usi – e chi vuole limitarla, come il vertice della CGdL, ai soli contenuti sindacali, assecondando la mediazione con la Confindustria operata da Giolitti. La decisione definitiva spetta al Consiglio nazionale della CGdL che approva, con una maggioranza del 54%, la posizione del segretario generale D’Aragona, favorevole a una conclusione sindacale della vertenza. L’occupazione delle fabbriche del settembre 1920 si chiude con una dura sconfitta della partecipazione operaia, con la divisione dei sindacati e dei partiti di sinistra, elementi che facilitano l’affermazione del fascismo, nato a Milano nel ’19, ma affermatosi prima di tutto in val padana con la violenza squadrista. L’appoggio degli agrari, dei grandi gruppi industriali, del ceto liberale ne determina il successo e la conseguente repressione di ogni libertà di organizzazione politica e sindacale al di fuori del partito-stato.

Il fascismo non ha una vera e propria politica economica, cercando continuamente di trovare un equilibrio tra la prioritaria difesa degli interessi degli imprenditori e degli agrari, le tendenze economico-politiche internazionali, le misure a sostegno dell’ideologia nazionalistica e delle ambizioni imperialistiche del regime, e le sue connotazioni genetiche, espresse nei concetti di “modernità senza modernizzazione” e di “rivoluzione dall’alto”. Le scelte governative calano nel contesto del “pigro” capitalismo italiano, incapace o disinteressato, anche quando è messo in condizioni di vantaggio, di impostare una strategia di razionalizzazione ed espansione produttiva, preferendo usare le politiche economiche del regime per ricavare profitti immediati. L’autoritarismo fascista mette sotto controllo il mercato del lavoro, salvaguardando le imprese da ogni pressione sul salario e limitando la capacità di consumo dei lavoratori, assoggetta i salari operai e i redditi dei coltivatori diretti e dei coloni all’imposta di ricchezza mobile, ed

abolisce numerose imposte straordinarie sui redditi d’impresa. Il risanamento dei conti dello Stato, così come più tardi il sostegno economico alle imprese belliche, viene perseguito a spese dei ceti popolari, colpiti anche dalla riduzione della spesa pubblica. Il principio cardine della gestione dei conflitti tra capitale  e lavoro sta nel corporativismo, inteso come una pratica di gestione degli stessi mediata dallo stato autoritario attraverso la costituzione di corporazioni a base economica e di mestiere

Verso il mondo del lavoro, il gabinetto Mussolini assume immediatamente misure assai chiare e coerenti, inaugurate dal licenziamento di 65.000 pubblici dipendenti, in maggioranza ferrovieri sindacalizzati. In questo quadro, la pubblicazione della Carta del Lavoro nel ’27, negli stessi giorni in cui si avvia la campagna per la riduzione dei salari industriali e agricoli – rappresenta un mero atto di propaganda. Significato analogo, sebbene su un piano simbolico, ha la precoce disposizione che sostituisce il 21 aprile (Natale di Roma) al 1° maggio come Festa dei Lavoratori.

Alla fine di gennaio 1922 viene costituita, a Bologna, la Confederazione Nazionale delle Corporazioni Sindacali, rigorosamente dipendente dal partito e poi organo dello Stato con il Ministero delle Corporazioni nel ‘34, che pone alla base del suo agire non il conflitto ma la collaborazione. Le Corporazioni hanno il monopolio della rappresentanza dei lavoratori e devono rimanere strutture esterne ai luoghi di lavoro, prive di una presenza istituzionalizzata nelle officine.

Gli altri sindacati non vengono formalmente posti fuori legge, ma impossibilitati ad agire. In questo contesto di repressione, in cui i dirigenti e militanti politici e sindacali antifascisti sono sottoposti al controllo sistematico da parte della Questura e dell’Ovra (la polizia segreta fascista), come testimoniano le cartelle del Casellario politico, agli arresti e al confino, il vecchio gruppo dirigente della CGdL decide l’auto- scioglimento, decisione osteggiata dai comunisti e dai socialisti di sinistra, che danno vita clandestinamente alla loro Confederazione Generale del Lavoro. Pertanto, fino alla caduta della dittatura, convivono due Confederazioni Generali del Lavoro: una di ispirazione riformista e l’altra comunista.

 

Bibliografia, sitografia

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